Luca Marotta
Anche per il 2013/14 è facilmente dimostrabile la tesi,
secondo la quale, i club di calcio italiani spendano praticamente tutti gli
introiti derivanti dalla cessione dei diritti TV per pagare il costo del
personale e non per fare investimenti.
L’aggravante consiste nel fatto che i proventi derivanti
dalla cessione dei diritti televisivi, compresi i ricavi da competizione UEFA,
costituiscano circa il 60% dell’intero fatturato della Serie A, al netto delle
plusvalenze, degli altri ricavi da Player Trading e degli storni dei costi del
vivaio per la relativa capitalizzazione.
La Tabella dimostra come la fonte principale di ricavo della
Serie A, pur avvicinandosi al miliardo di Euro, non basti da sola a coprire il
costo del personale, che supera abbondantemente il miliardo di Euro.
Il rapporto tra il costo del personale complessivo dei club
della Serie A 2013/14 e i proventi televisivi incassati, compresi i proventi
UEFA, è del 118,8%. In altre parole, i diritti TV “pagano” solo l’84,2% del
costo del personale e non bastano a farvi fronte.
Ovviamente, tale ingente fonte di ricavo non riesce a generare
“valore aggiunto” da investire in infrastrutture o altre tipologie di
investimento.
Il fatto che l’aggregato dei risultati netti dei 20 club di
Serie A 2013/14 evidenzi una perdita, conferma che l’ “industria calcio” è
l’unica industria nella quale “il valore aggiunto” sia di competenza dei
“lavoratori”.
Invero, solo sette club su venti della Serie A 2013/14
evidenziano un costo del personale inferiore ai ricavi TV. Precisamente tali
club sono, in ordine crescente di percentuale, i seguenti: Catania, Cagliari;
Udinese; Chievo; Napoli; Torino e Lazio. Tuttavia, il Napoli nel 2013/14 ha
beneficiato dei proventi da UEFA Champions League, per circa 40 milioni di Euro.
Per tutti gli altri club, i proventi TV non bastano da soli
per pagare il costo del personale. Su tale fronte i club della Serie A 2013/14
che primeggiano sono, in ordine decrescente, i seguenti: Sassuolo, Genoa, Roma,
Inter, Sampdoria, Parma, Bologna e Verona. Bisogna precisare che il dato del Sassuolo
si riferisce ancora al bilancio 2013, che era “inquinato” per la prima parte
dell’anno dalla disputa della Serie B, con diritti TV trascurabili.
Leggermente diverso è il discorso per quanto riguarda
l’incidenza del costo del personale sul fatturato al netto al netto delle
plusvalenze, degli altri ricavi da Player Trading e degli storni dei costi del
vivaio per la relativa capitalizzazione.
Solo tre club presentano un costo del personale superiore al
fatturato netto. Precisamente: Genoa, Sampdoria e Parma.
Tutti gli altri club presentano un costo del personale al di
sotto del fatturato al netto delle plusvalenze, degli altri ricavi da Player
Trading e degli storni dei costi del vivaio per la relativa capitalizzazione.
Se,
per ipotesi, considerassimo come parametro di una sana gestione economica,
quello raccomandato dal Regolamento del Financial Fair Play all’articolo 62
comma 4 lettera a):
“In addition, the UEFA Club Financial Control Body
reserves the right to ask the licensee to prepare and submit additional
information at any time, in particular if the annual financial statements
reflect that:
a) employee benefits
expenses exceed 70% of total revenue”
ossia di mantenere un costo del personale al di sotto del
70% del fatturato netto, il risultato sarebbe che solo 10 club su venti della
Serie A 2013/14 rispettano tale parametro. Precisamente: Napoli, Catania,
Udinese, Cagliari. Milan, Torino Lazio, Chievo, Juventus e Verona. Per Sassuolo
e Livorno vale il discorso attenuante del bilancio ad anno solare considerato, che
comprende la seconda metà del campionato disputato in Serie B.
Considerazione
finale.
Alla luce di quanto esposto, forse sarebbe opportuno mutuare
dalla Premier League la regola: “Short-Term Cost Control Measure”, che fissa
dei limiti all’aumento del costo del personale con i fondi provenienti dai
diritti TV della Premier League.
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